Più avanzo verso quel periodo della vita che si chiama vecchiaia più dalla vita sottraggo orpelli, elimino cose futili. L’età prosciuga il mio desiderio di apparire. Riduco all’essenziale gli oggetti che dovrebbero “mascherarmi”. Quando ero giovane, universitario e rivoluzionario, anarchico e pacifista, acquistavo i pochi capi d’abbigliamento ai mercatini dell’usato a Roma. Possedevo solo un braccialetto di ottone, un anello piatto d’argento con dei geroglifici egizi ed un piccolo Buddha di pietra verde con un laccio di cuoio per il collo. Poi, man mano, insieme ai capelli, ho perso anche gli ultimi orpelli.
Solo per il camminare in montagna mi permetto qualche eccezione, visto che certi oggetti, certi utensili, certi capi sono dei salva-vita. E ti consentono di camminare con qualsiasi condizione atmosferica, di arrivare ovunque, forze permettendo, anche sotto la pioggia o la neve. Le piccole “addizioni”, in montagna, sono utili. Restituiscono quel senso di libertà fisica e mentale che la vita “civile” ci ha inesorabilmente sottratto, trasformandoci in replicanti ossessivi che chiedono meccanicamente alla vita di essere rassicurati, di essere risparmiati da qualunque rischio.
Partiamo senza troppa convinzione, visto il tempo incerto, il vento forte, la minaccia di pioggia. L’idea è quella di compiere un lungo anello fra le montagne più a sud dell’Orsomarso, la vasta sezione sud-orientale del Parco del Pollino che riuscimmo a far entrare nella perimetrazione del parco contro tutto e tutti (perfino contro l’allora Ministero dell’Agricoltura e Foreste) insieme al Gruppo dello Sparviere, sul versante opposto. Dal Passo dello Scalone iniziamo a salire liberamente lungo la ripida cresta del M. La Castelluccia. Non la ricordavo così ripida e lunga. Il bosco sulla pendice a destra è malconcio per gli incendi ciclici. La pendice a sinistra è ancora una pietraia inframezzata di ciuffi d’erba, rovi, felci. Gli occhi spaziano verso il Tirreno furiosamente increspato, verde, grigio e marrone per le piogge. Ma anche a nord e ad est il paesaggio è magnifico, con Montea incapucciata di nubi, i valloni ed i contrafforti ammantati di un vello policromo. Il cielo tempestoso sparge ombre e raggi di luce come un seminatore su un campo di grano. Rendendo tutto irreale, magico, profondo. Siamo insetti che s’arrampicano sulla Terra, deboli, inutili, effimeri, pronti a sparire in un soffio di vento.
La cima, cinquecento metri più in alto, è immersa in uno scenario primordiale. Ormai siamo attratti dal prossimo rilievo, il Monte Cannitello, che s’innalza come una barriera verso nord. Dobbiamo scendere a una larga sella per avvicinarci alle sue pareti, alle sue pendici che scalano il cielo. E poi seguire un labile sentiero fra praterie e pietraie, per innalzarci su quel corpo modellato dagli elementi, puntellato di pini loricati e faggi come vecchi uomini morenti. E mentre stiamo per raggiungere la cresta, mai così bella e tenebrosa, vien giù una pioggia fitta, gelida, sferzante. La scena mi ricorda Il Signore degli Anelli, quando la Compagnia dell’Anello tenta di raggiungere il Cancello Corno Rosso e viene ricacciata indietro dalla tempesta che imperversa sulla montagna. Indossiamo i nostri orpelli e riscendiamo al valico, rinunciando al progetto iniziale. Ma alla sella ricordo un percorso alternativo a quello dell’andata. Ci tuffiamo nel bosco a sinistra, verso le gole dell’Esaro. Una sontuosa foresta di aceri e faggi c’ingoia nel suo ventre umido, muscoso, dai colori vividi stemperati appena dalla nebbia. Un privilegio unico! Come quello di un capriolo che fugge via impaurito. Alla fine del lungo scivolare fra le foglie, i sassi, il fango e la legna bagnata, siamo di nuovo sulla stradina che ci riporta verso la realtà. Alle nostre spalle, lassù è rimasto il mondo che non c’è e con esso la libertà e la salvezza perdute. Salvezza che, come dice Hölderlin, si trova solo laddove è il pericolo.